Articolo di Paolo Grandi

In ricordo dei 70 anni dall’abbattimento

Riprendo con piacere nel titolo di questo scritto quello di una mostra organizzata dieci ani fa con gli amici Pierpaolo Sangiorgi, Andrea Soglia e Lorenzo Presutti per commemorare la scomparsa del monumento simbolo di Castel Bolognese che, un po’ come la Bastiglia a Parigi, tutti conoscono e lo associano a quella città, ma non esiste più. Eppure, a partire dalle buste del Comune, la torre civica è ancora presente nella vita dei castellani che vi sono sempre affezionati nonostante siano trascorsi settant’anni dal suo abbattimento per opera delle truppe di occupazione germaniche e da allora attende una sempre più improbabile ricostruzione. Edificata dai bolognesi nel 1394 come unica porta del primo castello, si trovò poi, con l’ampliamento delle mura, a sovrastare la centrale piazza cittadina condividendo gioie e lutti dei castellani fino a quel fatidico 4 febbraio 1945. Mio padre Tristano Grandi fu testimone oculare nell’attimo dell’abbattimento, che descrisse nel suo libro “Il servizio di Pronto soccorso a Castel Bolognese 1944-1945”.

“La mattina del 4 febbraio 1945 i gustatori tedeschi ci avvertirono che, nel primo pomeriggio, avrebbero fatto saltare la Torre. Ci sembrava impossibile che quello che era stato il simbolo del nostro paese, quella torre che fu innalzata per difendere i cittadini dalle offese nemiche, perché si ergeva al di sopra delle mura e permetteva alle scolte di scrutare il vasto orizzonte e dare l’allarme in caso di pericolo, dovesse essere abbattuta. Ma la guerra nulla risparmia alle sue esigenze distruttrici; i Tedeschi ne avevano decretato la fine.

Nella mattinata ne minarono la base, poi avvertirono la popolazione affinché fosse evacuata la zona circostante considerata pericolosa. Vennero anche ali Ospedale ad avvertirci, non perché lo evacuassimo, ma perché, uscendo, non ci esponessimo al pericolo della caduta di macerie o di proiettili lanciati lontano dalla esplosione. Considerai che, rimanendo sotto il pronao dell’Ospedale, sarei stato al sicuro e, nello stesso tempo, avrei potuto vivere gli ultimi istanti dell’agonia della nostra amata Torre dalla quale, in tempi normali, uscivano i tocchi del campanone che, la mattina, chiamavano i fanciulli alla scuola. Dall’ingresso dell’Ospedale vedevo, di fronte, la Torre ergersi al di sopra dei resti della Chiesa del Suffragio a un centinaio di metri di distanza. Essa era, come sempre, maestosa; aveva sfidato e resistito alle insidie dei secoli ed ai recenti bombardamenti alleati; possibile che dovesse sparire? Sì, anche quella volta i Tedeschi vollero dar prova della loro capacità distruttiva.

Un sordo boato si espanse nell’aria. Mi sembrò che la Torre si afflosciasse su se stessa, poi si piegò. La sua cima, ancora illuminata dal sole, precipitava, dapprima con lentezza, poi sempre più velocemente, inclinata verso la montagna, mentre dalla base un immenso nuvolo di polvere saliva, quale onda immane, avvolgendo nel nulla i resti della vetta che precipitavano con fragore. Tutto rimase nascosto alla nostra vista dall’immenso polverone che si era innalzato. Quando quella cortina si dissolse, ci apparvero i resti del lato destro del Palazzo Mengoni e, dove erano la Torre ed il Suffragio, si notava un alto cumulo di macerie che aveva ostruito la Piazza.

Quella visione richiamò alla mia mente un’altra follia distruttrice tedesca: quella compiuta dal Barbarossa a Milano nell’epoca dei Comuni. Il Carducci, nella “Canzone di Legnano” fa pronunciare queste parole ad Alberto da Giussano che incita i Milanesi alla ribellione:

“……dai quattro Corpi Santi ad una ad una
crosciar vedemmo le trecento torri
de la cerchia; ed al fin per la ruina
polverosa ci apparvero le case
spezzate, smozzicate, sgretolate:
parean file di scheltri in cimitero.”
(da “Il Parlamento”- XI strofa)

Collegai i due episodi: la visione del crollo mi chiarì maggiormente la descrizione poetica e, quest’ultima ferì maggiormente il mio cuore perché le parole del Capitano mi facevano capire quanto grande, nel futuro, sarebbe stato, per noi Castellani, il dolore che avremmo dovuto sopportare per la perdita del simbolo del nostro Comune, fatto rovinare dalla cieca follia annientatrice teutonica.